giovedì, ottobre 29, 2009
martedì, ottobre 27, 2009
trans_anremohard_core
A: Mi piacerebbe iniziare il confronto intorno alle quattro lettere glbt, al loro utilizzo, ai loro significati. Trovo molto interessante che a un certo punto sia nato l’acronimo, che non bastasse più una parola per definire un movimento divenuto profondamente identitario, dunque eterogeneo. Come trovo interessanti le evoluzioni che la sigla ha attraversato in pochi anni. Innanzitutto riguardo la lettera T, che sta per transessuale ma anche per transgender. C’è chi preferisce usare il termine transgender perché crede che sia politicamente più corretto. Ma in realtà non è affatto vero: il termine transgender non è, di per sé, più corretto, più rispettoso. Certamente non è corretto credere che includa, al suo interno, anche l’esperienza transessuale. Anzi, in un certo senso si può dire che sia nato proprio in opposizione, diciamo in polemica, con il termine transessuale. A volte, invece, alcune lettere della sigla scompaiono. O meglio, a volte scompare la B di bisessuale: perché quella dei bisessuali è spesso una presenza invisibile, se non del tutto assente o più semplicemente, si fa per dire, problematica. Ai bisessuali si contesta il fatto di nascondersi spesso e volentieri nella normalità dell’eterosessualità e di essere, generalmente, poco militanti. Personalmente credo non sia vero. Ho conosciuto bisessuali (sia uomini che donne) estremente attivi nel movimento. Un’altra variante dell’acronimo, poi, vede invertire le lettere L (lesbiche) e G (gay): avviene soprattutto negli Usa, credo sia per assecondare la buona educazione che vuole “prima le signore”. Terribile… Ma forse l’aspetto più interessante della sigla sono le aggiunte. La Q, per esempio, che sta per queer ma a volte anche per questioning (le dubbiose…). Oppure la doppia T, che può voler essere o una soluzione alla scelta tra transgenderismo e transessualismo di cui parlavo prima, o anche, e questa è stata per me davvero una sorpresa, per dare visibilità, in Canada, ai two spirited, nativi americani né maschi né femmine, la cui identità sessuale non è riconducibile a quelle comprese nella sigla in questione. Da un punto di vista storico, invece, non so quando la sigla glbt sia comparsa in ambito anglofono (perché credo che lì sia nata).
M: In Italia, personalmente l’ho vista e sentita per la prima volta in occasione del Pride del ’97 o del ‘98. L’idea di utilizzare la sigla probabilmente è nata per dare visibilità alle tante differenze che si trovavano insieme durante un Pride, alle tante identità sessuali che si mettono in mostra in quell’occasione: gay, lesbiche, bisessuali, dunque, ma anche e soprattutto trans. Immagino anzi che l’acronimo sia nato proprio con lo spirito di dare visibilità, anche nella definizione del Pride, alla presenza trans che prima era oscurata nell’espressione Gay Pride. Ma ora la domanda è un’altra: basta quell’acronimo per restituire, per esempio, la partecipazione ai Pride? Chi partecipa ai Pride, chi ne prende parte (non intendo quindi chi guarda ai lati, o chi viene in solidarietà con gay, lesbiche e trans), chi si sente veramente coinvolto nell’evento, lo sente proprio… siamo sicuri che siano solo gay, lesbiche, bisessuali e trans? Ma non penso solo al coinvolgimento nei Pride. Penso anche, per esempio, alle associazioni, ai collettivi, ai gruppi politici… al Queering Sapienza…
I: Il Queering Sapienza è nato in modo quasi accidentale. Un ragazzo di Berlino, arrivato alla Sapienza come studente Erasmus, ha cercato il collettivo gay universitario - alla sua università ci sono diversi gruppi gay - ma da noi non ha trovato niente! E a dire il vero ha fatto tutto lui: con un amico ha stampato e distribuito dei volantini per una prima riunione, chiedendo lo spazio ai ragazzi e alle ragazze di Aula II occupata. Da lì è iniziato tutto. La prima iniziativa è stata la partecipazione al Pride 2002: abbiamo organizzato una festa di autofinanziamento per allestire un carro e sfilare come Queering Sapienza. Alle nostre riunioni partecipano tra le 15 e le 30 persone, gay, lesbiche, bisessuali, qualche indeciso/cisa… non ci sono trans, purtroppo. E nemmeno eterosessuali.
O: L’apertura o meno agli etero ha creato all’inizio qualche problema, che forse può essere esemplare per una serie di meccanismi che avvengono tra gruppi di identità differenti. All’inizio si era proposto il veto degli etero! Poi non era possibile gestire un controllo inquisitorio all’ingresso del tipo «tu come sei?!» e la “selezione” è stata lasciata semplicemente all’interesse: cosa può importare a un etero di fare una politica gay o lesbica, standone all’interno? Anche nella stessa definizione del Queering come di “gruppo di studenti e studentesse glbt”, glbt indica l’interesse ad approfondire il discorso sulle sessualità (generalmente considerate strane, diverse, patologiche). Si può anche essere guidati dalla curiosità! Chiunque ne voglia parlare è ben accolto…
A: A questo punto è necessario chiedersi perché i quattro elementi dell’acronimo glbt definiscono una comunanza che non accomuna invece gli etero. Ma questo credo sia un interrogativo che non riguarda soltanto il movimento glbt… Diciamo che se un eterosessuale decidesse di partecipare al Qeering Sapienza (ma potrebbe essere qualsiasi altra associazione gay, lesbica o trans) perché si sente solidale con le rivendicazioni dei diritti di gay, lesbiche e trans, la sua partecipazione, in quanto etero, non sarebbe affatto in contraddizione con l’acronimo glbt: la definizione glbt continuerebbe a funzionare in modo efficace per definire l’identità plurima del gruppo. Se invece, pur non riconoscendosi in nessun elemento dell’acronimo, la sua partecipazione dovesse nascere da un desiderio che lo coinvolge direttamente, in prima persona, allora l’acronimo crolla, non è più sufficiente. Il fatto che sempre più spesso cominci a sbucare una Q in coda alla sigla è proprio segno di questa ridefinizione del comune che tiene insieme tanti soggetti differenti, che rivendicano e rendono visibili sessualità non riconosciute, considerate strane, patologiche, differenti, non solo rispetto all’oggetto del desiderio, ma anche riguardo pratiche sessuali strane o non-normali, o comunque non identitarie…
Ju: Possiamo dire che la posizione collettiva identitaria vale: a) quando rivendico diritti (e allora posso integrare nella questione identitaria persone semplicemente solidali); b) perché io ho diritto ad affermare un certo tipo di piacere e di uso o pratiche del corpo. In questo secondo caso la questione identitaria è necessaria e implicita ma allo stesso tempo esplode, perché la si può allargare facendo scoppiare la stessa categoria di eterosessualità (intesa come normativa) in quanto escludente di pratiche eterosessuali che non entrano nella norma. Divenire minoritario per Deleuze e Guattari non significa divenire minoranza, essere pochi o sfruttati. Divenire minoritario significa rifiutare i rapporti di potere, esodare dal potere. Storicamente il potere è stato maschile ed eterosessuale e uno dei suoi terreni importanti sono stato il corpo e la sessualità, costruita dal potere come posta in gioco del potere. Bisogna smontare questa presa del potere sulla sessualità, quindi rivendicare libertà della scelta sessuale; d’altro canto non bisogna fare della sessualità il luogo nel quale o attraverso il quale passa la lotta al potere o altrimenti si fa il gioco del potere: è proprio il potere che ha costruito la mia sessualità come un suo terreno!
I: Credo che il rischio, nel rifiutare i rapporti di potere, sia di scivolare inconsapevolmente, inavvertitamente, in nuove dinamiche di potere. Penso piuttosto che un primo passo per uscirne sia il raggiungimento della consapevolezza che noi agiamo e viviamo dinamiche di potere; in seguito si vedrà se siano possibili o meno rapporti “degerarchizzati”, anche sul piano sessuale, ma non solo su quello…
Ju: Chi l’ha detto che non sono possibili? Sicuramente se facciamo il gioco di incrociare i propri divenire minoritari o le proprie posizioni di minoranza, in realtà aiutiamo la costruzione di categorie per identificarci, e l’identificazione è la fine di ogni pratica di libertà. In questo senso la definizione del Queering come glbt rimane dentro un meccanismo di opposizione dicotomica omo/etero paralizzante, nel quale etero uguale norma. Invece non c’è gerarchia: ci può momentaneamente essere una priorità politica, data dall’urgenza o dalla pesantezza di una questione, ma io per esempio non mi sento più etero che precaria!
J: Il problema è esattamente di rapporto al potere, e non un problema di genere. Per questo bisogna stare attenti, nella stessa rivendicazione dei diritti settorialmente legati all’identità di genere o alla sessualità, a non riprodurre le stesse categorie del potere. Non solo a non utilizzarle, ma anche a smontarle, aggirarle o impedirle. Penso a una riunione di vecchie femministe in Francia, alla quale partecipavano alcune trans e le lesbiche non riuscivano a usare il pronome femminile per le trans!
Ju: In Francia, quando Act Up faceva i matrimoni nei municipi cercava di fare scandalo. Non tanto chiedere di potersi sposare, quanto piuttosto chiedere di poter scegliere. La differenza è tra riconoscere un privilegio e poterne usufruire, e, dall’altra, scardinare questo privilegio, smontarlo, deriderlo, mostrare quanto sia oppressivo, ridicolo ecc.
A: Sì, credo che di fronte al matrimonio gay ci si debba esattamente chiedere questo: quanto distrugge il concetto di famiglia che fino ad ora si è basato sulla norma eterosessuale? O quanto, piuttosto, riconosce tale norma, la accetta, non vuole assolutamente metterla in discussione, anzi, ambisce a esserne incluso? Foucault diceva che il mondo relazionale nel quale viviamo è stato notevolmente impoverito dalle istituzioni che possono, in questo modo, gestire meglio il proprio controllo. Per questo ci troviamo ad avere a che fare con un contesto legale, sociale, istituzionale in cui le relazioni possibili sono molto poche: sostanzialmente quelle matrimoniali e familiari. Il Pacs è indubbiamente un passo avanti verso il riconoscimento di altre forme di convivenza, ma è estremamente limitato e non scalfisce per nulla il privilegio eterosessuale. I matrimoni organizzati in grande stile da Act Up nei municipi parigini erano certamente un buon modo per parodiare il matrimonio eterosessuale, rendendolo ridicolo, strano, forse anche grottesco. E poi erano un momento importante di messa in scena e rappresentazione pubblica delle diversità.
M: Anche durante il Pride la differenza è resa pubblica, visibile: attraverso l’uso del corpo, degli abiti, dei colori. Ma in che modo è identificabile? Per esempio: è possibile legare visibilità diverse a ciascuna delle lettere che compongono la sigla glbt?
I: Certo nel Pride la parola visibilità è fondamentale. Si scende in piazza proprio per rendere le proprie diversità visibili. Ma purtroppo c’è visibilità e visibilità. La visibilità trans, ad esempio, da un punto di vista mediatico è molto più deflagrante della visibilità gay. Spesso in tv, sui giornali le immagini dei Pride si limitano alle trans e alle loro piume, concedendo loro una visibilità soltanto superficiale, da sbattere in prima pagina; non una visibilità profonda, che sarebbe la visibilità del corpo e della vita dei/delle trans. Una trans ha un corpo che è visibile, è riconoscibile (non solo durante i Pride) e quindi spesso diventa, nella cattiva opinione comune, la figura emblematica, in qualche modo “mostruosa”, sulla quale appiattire la moltitudine che vi partecipa. Tutto è schiacciato sul transessualismo e sul travestitismo (che spesso vengono confusi!) in quanto figura che meglio riassume lo spettro e su cui, più violentemente, si scatena lo stigma…
A: Se noi cogliamo la complessità e la diversità delle immagini che le persone producono con i loro corpi, con i loro travestimenti, con le immagini e i simboli che portano in un Pride, è vero che a volte chi guarda dall’esterno il Pride può avere questa immagine stereotipata: la manifestazione delle travestite, degli uomini vestiti da donne o delle donne vestite da uomini. Ma questa idea banalizza innanzitutto l’esperienza trans: perché le trans sono persone vestite con gli abiti del proprio genere e che può non corrispondere necessariamente al maschile o al femminile… L’anno scorso sul Manifesto è andata la foto del carro del Queering Sapienza che portava Che Guevara col volto di Marilyn Monroe. Ecco, “Cherilyn” è G, L, B oppure T? È una domanda che non ha senso, perché è tutte queste cose insieme. È strana, indefinibile. È dissacrante, ridicola, forse anche iconoclasta… un giornale riportò che una signora disse: “Va bene tutto, ma Che Guevara non me lo toccate…”!
I: Io per esempio al Pride metto il pareo, la gonna, oppure mi trucco; se vado a manifestare contro la guerra no. Forse fa parte di quella concezione dell’identità non come qualcosa che si è definitivamente e staticamente, ma piuttosto qualcosa che si desidera essere in quel momento – e magari solo in quel momento. Credo sia per questo che durante il Pride molte persone sentono il desiderio di manifestare anche con il proprio corpo… Il Pride esaspera questo aspetto di rappresentazione, l’importanza dell’essere “visti” è molto più forte che in altre manifestazioni, e passa proprio attraverso il corpo… Probabilmente in altre manifestazioni tendiamo più ad esserci come folla, come presenza fisica, che fa numero. Nel Pride c’è anche questo (perché è importante esserci in tanti), ma c’è anche un forte momento di soggettività (fisica).
Ju: Dunque possiamo dire che il Pride, più che essere un momento di rivendicazione, è un momento di visibilità in cui si dice innanzitutto “ci sono”, quindi “ci sono in questo modo, perché la vita è mia, il corpo è mio, il piacere è mio” – che poi dovrebbe essere il motto di tutti. Ma la rivendicazione sulla guerra è un momento nel quale uno dice “ci sono” e “ci sono con una richiesta specifica sul mondo nel quale voglio vivere”. Allora, ci sono momenti in cui queste due cose si sovrappongono, vale a dire: quello che si è chiamato banalmente il rapporto alla politica e quello che è stato spacciato come una semplice costruzione di sé e basta, e in realtà è un gesto politico (la sessualità)? Per esempio, il fatto di essere dentro alla manifestazione contro la guerra in quanto gay, come si organizza nella testa, come si sovrappone e come si articola? Perché se non si articola, il rischio è quello di dire che la sessualità è una scelta privata e l’opinione sulla guerra è un’opinione pubblica, mentre la scelta sessuale è privata e pubblica allo stesso tempo e, in quanto gesto politico, non vede distinzione tra pubblico e privato.
I: Le due cose non solo si sovrappongono, ma sono anche fortemente intrecciate. Rimanendo al corteo sulla guerra, ad esempio, direi che la guerra è una pratica violenta, arrogante, basata sull’imposizione della forza, e secondo me l’imposizione della forza è una pratica tipicamente maschile e maschilista (non dimentichiamo che missili, cannoni, fucili, hanno la forma del pene). Come un microcosmo e un macrocosmo…
Ju: Foucault in un suo testo dice che, rispetto ai meccanismi di identificazione forsennata, non c’è niente di più vicino all’eterosessualità maschile bianca, allo stereotipo “siamo tutti uguali”. È lo stesso meccanismo della guerra, attraverso la creazione dell’esercito, come massa indistinta e maschile, dove anche il modello di forza è il modello di forza eterosessuale maschile.
A: Nell’ultima manifestazione al SFE di Firenze lo spezzone glbt era effettivamente un piccolo Pride. Il fatto di esserci in modo visibile, comunicando la propria sessualità, si sentiva in modo molto forte: dalle ragazze del sexyshock in fiocchi “rosa trasversale”, alle compagne del MIT di Bologna e le compagne prostitute, ai ragazzi di AntagonismoGay truccati. Contro la guerra, dunque, ma segnando il proprio corpo… La presenza glbtq non era tutta lì, sicuramente era anche sciolta nella moltitudine, ma nello spezzone era più visibile, era densa di simboli ed era, letteralmente, scritta sugli striscioni. Sul piano simbolico, poi, possiamo trovare altre sovrapposizioni: la bandiera glbtq è il rainbow, un arcobaleno, come quella della pace, anche se ci sono alcune differenze. E forse non è così strana o assurda questa somiglianza: il riconoscimento e la valorizzazione della diversità, delle nostre diversità, è pratica di pace. Dunque la sovrapposizione esiste. Ma credo esista proprio perché la necessità di essere visibile e l’aspetto rivendicativo di cui si parlava prima sono entrambi presenti: voglio dire che affermare la propria diversità, mostrare il proprio corpo, la propria sessualità, significa, per come stanno le cose ora, affermare una richiesta specifica su come vorremmo che fosse il mondo.
O: Dipende anche da come uno se la vive. A me se un etero viene al Pride vestito di rosa mi fa solo che piacere: non sento che mi stia togliendo niente. Chiunque dovrebbe essere libero di giocare con le proprie identità! Mentre quando vado a una manifestazione contro la guerra, ci vado come me stessa, non come lesbica appartenente al Queering, o come compagna appartenente ad un altro collettivo. Ma forse il fatto di riconoscermi nella Q di questioning (le dubbiose di cui si diceva sopra), mi porta a volere allargare la partecipazione a tutti gli altri invece di restringerla in forme minoritarie e autoescludentesi l’un l’altra. In quanto dubbiosa la presenza degli altri è non solo rassicurante ma anche vitale. Probabilmente però, per qualche motivo che continua sempre a sfuggirmi, una “lesbica radicale” storcerebbe il naso a sentire queste parole. Ma la bellezza di un Pride glbtq è quella di vestirsi ed esprimersi liberamente, liberi dallo sguardo estraneo ed esterno del potere normativo, senza “vergogna”. Non è come mettersi una divisa, come spesso ancora accade nei cortei più tradizionalmente politici (ma per fortuna sempre di meno!)
Ju: La costruzione del comune passa attraverso il riconoscimento di tutte le differenze, ognuno con tutte le sue, che sono infinite. Di volta in volta queste differenze sono messe nel paniere, per poter costruire soggettività in funzione del momento. I diritti per cui agiamo politicamente non sono quindi degli a priori universali, quanto piuttosto il frutto della nostra soggettività politica. Secondo Deleuze e Guattari “divenire” non vuol dire diventare qualcosa ma differenziarsi, mutare, costruirsi, fermarsi e ripartire, non fissarsi mai… Divenire froci, dunque, non riguarda solo i froci, ma tutti quelli che vogliono inventare se stessi…
Alberto Emiletti, Jeanne Revel, Ottavia Nicolini, Iacopo Costa, Judith Revel, Margherita Emiletti.
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siamo (tutti) nella stessa barca(?)
L'anomalia italiana: flessibilità del lavoro senza sicurezza
Il gatto e la volpe
Il gioco dei ruoli di Tremonti e Berlusconi
di Andrea Fumagalli
26 / 10 / 2009
Ancora una volta il dibattito politico italiano ha sussulti retrò e stravaganti. Non è la prima volta.
Recentemente l’ineffabile ministro della creatività finanziaria Giulio Tremonti, dopo la bella pensata dello scudo fiscale, pare abbia scoperto il “valore del posto fisso”. Detto da lui, può solo venir da ridere, se, ad esempio, consideriamo che è lui il burattinaio dei tagli alla scuola con la conseguente precarizzazione e licenziamento di migliaia di insegnanti.
Due giorni dopo l’ineffabile premier Berlusconi annuncia il taglio dell’Irap, una proposta che ha come primo impatto, se venisse attuata nelle modalità dichiarate, la riduzione delle entrate fiscali di circa 40 miliardi di Euro. L’Irap è l’imposta regionale sulle attività produttive e, come lo era l’Ici, è una tassa che garantisce gettito a livello locale. In molte regioni, essa è utilizzata per finanziare il sistema sanitario nazionale. Se non venisse adeguatamene compensata da trasferimenti centrali, il rischio è l’avvio di un ulteriore processo di smantellamento della sanità pubblica o, nel migliore dei casi, un suo progressivo deterioramento (il che è la stessa cosa). Non stupisce l’irritazione di Tremonti, alle prese con una dinamica economica, nella quale la caduta del Pil è superiore ai tagli alla spesa sociale, con l’effetto di raddoppiare il rapporto deficit-Pil nel 2009 rispetto al 2,7% del 2008.
E’ curioso notare come i giornali abbiano subito parlato di attriti in seno alla maggioranza di governo. In realtà, credo si tratti del classico gioco delle tre tavolette.
Prima mossa. Tremonti vara lo scudo fiscale con il duplice intento di fare cassa e di supportare l’attività di elusione ed evasione fiscale delle grandi imprese (e implicitamente di quelle del Premier). E’ un provvedimento che viene mal digerito dalle imprese artigiane e di piccole dimensione, soprattutto quelle che svolgono attività di subfornitura all’interno delle filiere produttive internazionali e sulle quali si scarica il peso della crisi economica. Difficilmente, infatti, le piccole imprese hanno la forza (e la capacità) di creare filiali all’estero dove occultare al fisco i propri guadagni. Un tale provvedimento, quindi, può minare la fiducia di una parte consistente dell’elettorato berlusconiano e leghista.
Seconda mossa. Berlusconi propone l’eliminazione dell’Irap per riguadagnare consenso presso la piccola impresa. L’Irap infatti grava soprattutto su questo settore. Non essendoci alcuna progressività delle aliquote, un’attività industriale, terziaria o professionale che si localizza nel centro dei network produttivi, dove può sfruttare le sinergie esistente e sfruttare una rendita di posizione, paga in proporzione la stessa imposta di chi ne sta ai margini.
Terza mossa. Tremonti riscopre il valore del posto fisso. Al di là della boutade puramente demagogica, si tratta di un messaggio rivolto a quelle componenti sindacali (Cisl e Uil) che recentemente hanno siglato separatamente il contratto metalmeccanico, dando prova di buona cogestione servile. Angeletti prontamente abbocca, dichiarando che Tremonti potrebbe essere un iscritto alla Uil. L’eccessiva deregulation del lavoro porta non flessibilità ma precarietà con effetti nefasti sulla stessa efficienza dell’apparato produttivo. Tale risultato, come sappiamo, è il frutto congiunto sia delle politiche del centro destra che del centro sinistra. La strategia che ha accomunato i diversi schieramenti è la seguente: per rendere competitiva e favorire la globalizzazione delle imprese italiane (motivazione del centro-sinistra) o per favorire gli interessi padronal-familiari in un’ottica corporativa e nazionalistica (motivazione del centro-destra), era necessaria una prima fase di flessibilizzazone e riduzione del livello di protezione del lavoro, a cui sarebbe seguita (se mai ci fosse stata) una fase seguente (logicamente e temporalmente) in cui si sarebbe provveduto a fornire qualche elemento di sicurezza sociale. In altre parole, la tanto sbandierata flexicurity italiana, sostenuta da Ichino, doveva essere intesa come: flessibilità prima, sicurezza dopo. Sappiamo come è andata e come sta andando. Dall’approvazione del pacchetto Treu del 1996, passando per la legge 30, la precarietà si è oramai strutturata saldamente nel mercato del lavoro italiano, mentre la sicurezza sociale e una riforma adeguata del welfare è ancora lungi a venire.
Il tema del “valore del posto fisso”, sollevata da Tremonti, si colloca ancora una volta all’interno di questo schema d’azione. Si predilige l’intervento sul mercato del lavoro, mentre di welfare nessuno parla, se non in termini molto vaghi di riforma degli ammortizzatori sociali, comunque sempre in funzione della centralità del lavoro.
Tra Tremonti e Berlusconi, c’è un gioco di sponda, che si svolge a 360°. Dopo aver favorito la grande impresa, si mette una toppa per le piccole imprese. Si strizza un occhio al sindacato concertativo, nel tentativo di isolare qualsiasi alone conflittuale. Mentre si ribadisce – ed è questo il punto principale – che non ci sarà nessun intervento di adeguamento del welfare e a sostegno dei redditi di lavoro, sia dipendente che autonomo eterodiretto. Loro, la crisi non intendono pagarla. Il gatto (Berlusconi), la volpe (Tremonti) vogliono farla pagare a noi. Sta a noi far saltare in aria le tre tavolette.
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